Octopus’s garden, oltre ad essere il titolo di una canzone molto famosa dei Beatles, è il nome di un workshop – intensivo di tre settimane – realizzato all’interno del programma della “Summer School”, della Architectural Association School of Architecture of London.
Perché Octopus’s Garden?
I polipi (o octopus), sono soliti raccogliere oggetti negli oceani, con i quali ricreano dei veri e propri giardini, nei quali si mimetizzano per cacciare o per nascondersi dai predatori.
Un grandissimo spunto di riflessione e metafora che rapportato ai giorni nostri, ha gettato le basi per un progetto di condivisione e azione, in cui giovani studenti di architettura e design, sono stati invitati ad esplorare modalità di progettazione, costruzione e interpretazione dello spazio collettivamente.
Come possiamo reinterpretare lo spazio, la città, l’architettura e il design e noi stessi in maniera meno invasiva? Come i polipi, prediligendo le risorse locali.
Partiamo dall’inizio
I suoi ideatori, Marco Veneri e Valerio Ciaccia, del collettivo Off-Pof, hanno radunato 14 studenti di 10 nazionalità diverse e invitato artisti, ricercatori, attivisti e designer all’interno di uno spazio collettivo, con un’unica volontà: affiancarli in un percorso di esplorazione e crescita sia collettiva che introspettiva, con il fine di trasformare sé stessi e le risorse disponibili, attraverso la collaborazione con gli altri, parallelamente all’evoluzione dello spazio circostante.
Elemento attraverso il quale coltivare la propria crescita e il prendersi cura di qualcosa al di fuori di se stessi? Le piante ovviamente.
Il Programma
Il programma del corso Octopus’s garden prevedeva un’agenda ricca di incontri ed attività, con guests del settore e creativi di ogni età.
L’obiettivo era quello di appropriarsi e trasformare il cortile della scuola in un “giardino temporaneo”, grazie alla raccolta e reinterpretazione di vari oggetti trovati nelle aree limitrofe dell’università londinese: tutto era pronto ad avere una seconda vita!
Il corso si è articolato in 3 atti, ognuno della durata di una settimana.
Atto 1: “PLANTING A SEED MAKING A WISH”
Ogni partecipante del corso, è stato incaricato di giungere a Londra con almeno un seme caratterizzante la zona di provenienza. Le piante, in natura, viaggiano quando sono semi, attraverso animali e agenti atmosferici. Ad ogni studente è stato poi chiesto quale fosse il proprio desiderio di trasformazione e come si potesse “negoziare” con gli altri.
Il laboratorio pratico con Aude Vuilliomenet , ricercatrice del Centre of Advanced Spatial Analysis della UCL e esperta di coltivazione indoor, prevedeva il recupero e la rifunzionalizzazione di una serra esistente in uno spazio di coltivazione verticale indoor: fase che si è conclusa con il rituale di “seed” assieme a Carole Wright, attivista apicoltrice e giardiniera urbana, per l’appunto!
Primi spunti di riflessione: “No borders, i semi viaggiano con gli uccelli. Che piante diventeremo? Cos’è un giardino? Uno spazio di raccolta.”
Atto 2: “URBAN FORAGING & CO-DESIGN + CONSTRUCTION”
La seconda fase prevedeva un tour esplorativo e di foraggiamento urbano, guidato dall’artista/attivista Michael Smythe, colui che si cela dietro “Phytology” – una riserva naturale e istituto culturale situata a Bethnal Green (East London) che ospita residenze artistiche ed eventi culturali con artisti e ricercatori che lavorano nel campo delle arti, dell’architettura, della scienza e delle discipline umanistiche, impegnandosi attivamente con le complessità ambientali e sociali del paesaggio urbano circostante – alla scoperta della biodiversità delle aree verdi londinesi.
Focus del percorso era evidenziare la natura e gli effetti benefici del verde urbano: Smythe ha concluso il giro conducendo i giovani all’interno della sua Riserva Naturale, luogo di ritrovo per artisti, dove vengono coltivate e conservate molte specie di piante con effetti medicinali, che utilizzate per prodotti di erboristeria, vengono distribuiti a membri della comunità in difficoltà, grazie al progetto Mobile Apothecary.
Il lab pratico di questa fase, guidato da Milo Mcloughlin Greening, un community designer, si è basato sul “learning by making” e “design as a catalyst”: i ragazzi hanno dovuto infatti progettare e realizzare oggetti funzionali e non, secondo la propria idea collettiva di giardino, in totale libertà.
Nel frattempo, nella serra hanno iniziato a comparire e svilupparsi i primi micro-greens (micro ortaggi), solitamente coltivati in idroponica, ma in questo caso – sperimentale -, piantati in 6 diverse tipologie di mix. Vista la velocità di crescita, al progetto sono stati aggiunti anche i King Oyster mushrooms, funzionali alla fase 3.
Atto 3: “WELCOME TO THE GARDEN”
La terza ed ultima fase del workshop potremmo definirla celebrativa: suoni, performance artistiche, cibo e festa, al fine di ricreare un happening che ha reso vivo lo spazio finora realizzato.
Gli studenti hanno dovuto pensare a come coinvolgere gli ospiti: guidati da Andrea Veneri, il giardino è diventato uno strumento sonoro in cui interagire e creare arte. In collaborazione con il cuoco della scuola, il giardino è diventato cibo prelibato per gli ospiti, con cui appagare la vista e il gusto.
L’happening finale è stata una performance, che celebrava la chiusura del giardino, con suoni e movimento, dove il pubblico ha inizialmente assistito dall’alto, per poi accedere al giardino e interagire e ballare con gli oggetti sonori. I ruoli erano invertiti. Tutti suonavano, celebrando lo spazio urbano, molto green che li ospitava.
Durante la festa il cibo prodotto nella serra è stato servito su un banchetto “innovativo” di compost, in cui era possibile mangiare e poi buttare. Come give away, le piccole aree vegetali create dagli studenti: l’Octopus’s Garden era quindi pronto a prendere vita in altri luoghi e con altre conformazioni.
Perché vi abbiamo parlato di questo Workshop?
Perché è sempre giusto domandarsi cos’è un giardino e concedersi il lusso di darsi ogni volta una risposta differente. Perché le scelte del singolo influiscono più di quanto si creda all’interno della comunità. Perché produrre cibo e auto-sostenersi non è poi così complesso né noioso. Perché Octopus’s garden è un progetto pilota, replicabile e scalabile. Perché Marco è un amico e ne siamo davvero orgogliose.